Quante parole abbiamo speso per descrivere a noi stessi e agli altri ciò che è accaduto in queste cinque settimane di chiusura imposta? Quante frasi e discorsi abbiamo sentito alla radio, alla TV, nei video, sui Social che descrivevano la situazione attuale?
Quante parole abbiamo usato per esprimere la nostra opinione, la nostra nuova quotidianità, il nostro modo di vivere e sopravvivere allo tsunami di informazioni contrastanti che ci è piovuto addosso?
Abbiamo avuto e abbiamo tutt’ora necessità di esprimere ciò che proviamo
La narrazione di un evento che abbiamo vissuto infatti diventa molto utile nel rielaborare e riconoscere cosa sentiamo.
Ma l’eccesso ci porta a utilizzare principalmente i Social e Whatapp come il “gabinetto degli sfoghi” e “il forum dei carabinieri improvvisati“.
Per gli sfoghi magari scegliamo di parlarne con una persona amica, qualcuno che possa ascoltarci e condividere magari la stessa emozione, aiutandoci a vicenda poi a lasciarla andare e non a trattenerla.
Per le informazioni che ci arrivino, prima di ri-condividere con il mondo ciò che leggiamo, vediamo, prima di puntare il dito, prima di decidere a chi dare ragione, scegliamo di farci delle domande, scegliamo di mettere il dubbio sul messaggio di quella notizia, sul cercare magari la fonte, anche originale se esiste, e verificare.

Parole come guerra, battaglia, morte, combattere, arginare, circoscrivere, limitare rimbombano ancora nelle nostre orecchie…e non solo ma le ripetiamo a catena anche noi, con chiunque ci capiti, come burattini senza sapere bene che risonanza emotiva hanno dentro di noi.
Nel lontano 1980 il dott. Oscar Simonton per primo mise in relazione l’atteggiamento mentale e il linguaggio del paziente oncologico con l’efficacia del trattamento chemioterapico. Durante più di quarant’anni di supporto diretto ai pazienti oncologici, verificò che ogni paziente reagiva alla malattia principalmente in due modi: utilizzando la metafora bellica oppure la metafora di cura.

La prima si riferiva al tumore come al male da sconfiggere, il paziente impersonava il guerriero che non si arrendeva e combatteva strenuamente contro il nemico dentro di sè, usando spesso un linguaggio aggressivo per descrivere ciò che gli accadeva.
La seconda si riferiva alla malattia come una potenziale occasione di cambiamento, il paziente sentiva di potersi affidare non solo alle cure mediche ma anche al suo corpo, che non si stava arrendendo, ma anzi che assieme a lui e con lui cercava di riportare una situazione di equilibrio, rinnovato e migliorato.
Come possiamo immaginare, i pazienti che avevano un atteggiamento di fiducia, speranza, serenità, supporto, amore, erano quelli maggiormente capaci di produrre nel corpo la situazione più favorevole al recupero della salute.

Tornando ai giorni nostri, mi domando: a chi è stata diagnosticata la malattia da COVID, quale sarà stato il suo atteggiamento mentale?
Ora che stiamo vivendo l’incertezza delle conseguenze del virus, qual è il nostro linguaggio?
Verso quali parole ci sentiamo di propendere maggiormente?
Purtroppo io ho sentito ben poche persone che usavano parole di fiducia e di speranza, anzi la maggioranza ripeteva le medesime frasi sentite ai TG rincarando la dose con le loro previsioni di paura e pessimismo.
Perchè succede questo?
Perchè le metafore di cura richiamano sentimenti di tristezza, di richiesta di aiuto, di confusione, di certezze sgretolate.
Riconoscere questi sentimenti viene visto come debolezza, come mettere ulteriori pesi sopra una situazione già pesante: molto meglio reprimere tutto e usare l’aggressività per uccidere il virus cattivo.
Mi rendo conto che ognuno di noi, sottoscritta compresa, senza alcuna distinzione, ha dovuto fare i conti con le sue emozioni, con le sue credenze, con ciò che era importante e magari gli è stato tolto.
Ha dovuto magari toccare il fondo e risalire, ha dovuto fingere fuori ma dirsi la verità dentro, ha dovuto mettere in discussione certi comportamenti ma non sapere quali altri adottare, ha dovuto seguire delle regole senza avere la più pallida idea a che cosa servissero.

Mi guardo intorno, osservo, ascolto e mi pongo alcune domande
– Quanto ci sentiamo influenzati da ciò che gli altri pensano di noi, di ciò che facciamo in merito alle leggi imposte o in merito alle decisioni del governo o alle informazioni che ci arrivano?
– Quanto ci fidiamo e sappiamo del nostro corpo e delle difese che mette in atto per sopravvivere agli agenti esterni?
– Quanto conosciamo la Costituzione italiana, le leggi che regolano il mondo politico, i meccanismi che disciplinano i prestiti monetari da parte dell’Unione Europea, gli interessi economici dietro determinati protocolli medici?
-Quanto crediamo di sapere sulla libertà? Libertà di pensiero, di espressione e di cura? Forse in parte ora ce ne rendiamo conto perchè ci è stata limitata, ma sapremmo davvero difendere i nostri diritti se verranno messi nuovamente in discussione?
– Quanto benediciamo ciò che ogni giorno abbiamo nella nostra vita, da un tetto sopra la testa, al cibo che non ha mai smesso di comparire sulle nostre tavole, dall’aria che respiriamo, al riscaldamento e l’acqua calda?
– Quanto spesso ci ricordiamo di dire “ti voglio bene” o “ti amo” o “grazie di esserci” alle persone che vivono con noi?
Non fingiamo di essere d’accordo per forza con i titoloni dei giornali, con gli “esperti”, se poi non siamo nemmeno sicuri di ciò che abbiamo capito.
Come dicevo nel mio ultimo podcast, non è la resistenza agli eventi la vera soluzione, e nemmeno la totale assuefazione al modello esistente.
So che acquisire resilienza può portare a galla la paura di perdere il controllo e dover mettere in discussione le proprie convinzioni.
Ma prima di continuare a combattere una guerra contro un virus, di aggredire gli altri, di biasimare le scelte politiche, prima
– chiediamoci se dentro di noi stiamo facendo il necessario per costruire basi solide dove porre le mura della nostra nuova vita,
– chiediamoci cosa vogliamo metterci all’interno della nostra nuova vita.
Il momento di unirsi, non solo per uscire di casa, ma per far rispettare i nostri diritti e per chiedere spiegazioni arriverà presto.
Io dentro la mia nuova vita ci vorrei mettere fiducia, libertà, equanimità e rispetto.
E tu?